domenica 24 aprile 2016

"La Chiesa e il Riso" La repressione del riso è stata una delle principali preoccupazioni dei legislaturi monastici. Il più celebre e il più influente di tali legislatori è san Basilio

Maria Grazia Fida
Pedagogista e scrittrice
Il cristiano dunque deve evitare con particolare attenzione di fare il buffone ridendo. Il ridere  e il gesticolare sono condannati senza appello assieme a tutto ciò che è connesso al teatro. Il è la lordura del “più prezioso dei beni che ci sia nell’uomo”: la parola che si disonora nel riso.
Dunque  necessita una severa regolamentazione del riso, al quale bisogna “porre freno”, che bisogna rendere funzionale all’equilibrio dell’anima, non alla sua sregolatezza, che deve essere sottomesso alla ragione che ancor più è caratteristica dell’uomo. Il riso lecito è il sorriso (meidiama), “riso dei saggi). La donna deve evitare  di ridere come una prostituta, l’uomo come un  prosseneta..., particolarmente sconveniente negli adolescenti e nelle donne. Sullo sfondo, il riso legato al libertinaggio, all’oscenità, all’ubriachezza. Il riso fa fuggire la ragione e risvegliare “le passione mostruose”. 
La repressione del riso è stata una delle principali preoccupazioni dei legislaturi monastici. Il più celebre e il più influente di tali legislatori è san Basilio, le cui Grandi e Piccole regole (composte nel 357-58) sono state tradotte in latino a partire dal 397 da Rufino di Aquileia. Nelle Grandi regole (capitoli 16-17, il riso appare come un aspetto dei piaceri  carnali, consequenza del peccato, che sono di grave ostacolo all’ascesi e alla salvezza; tuttavia Basilio, influenzato dall’idea greca di enkràteia,(temperanza, moderazione), raccomanda soprattutto un uso moderato del riso, ma non lo vieta. Nelle  Piccole regole al contrario è molto più severo: “Non è assolutamente permesso ridere?”. Risposta: “Il Signore ha condannato coloro che ridono in questa vita. E’ dunque evidente che non esiste circostanza in cui il cristiano possa ridere”. In effetti, sembra proprio che sia questa opinione raccogliticcia e senza sfumature che il monachesimo occidentale ha recepito.
Gesù, modello che il cristiano deve imitare, non ha riso una sola volta durante  la sua vita  terrena, come attestano i Vangeli, “Il Signore, come ci insegna il Vangelo, si è fatto carico di tutte le passioni corporali inseparabili dalla natura umana, come la fatica. Si è anche rivestito dei sentimenti che testimoniano la virtù di una persona, per esempio ha manifestato una passione per gli afflitti. Tuttavia, come attestano i racconti evangelici [Basilio fa allusione a Luca 6, 25: “Vae vobis qui ridetis nunc, quia lugebitis et flebitis’], non ha mai ceduto al riso. Al contrario, ha definito infelici coloro che si lasciano dominare dal riso” (Grandi regole, 17). Sul tema “Gesù non ha riso una sola volta nella vita”,  Antonelli, Firenze 1992, pp. 468 sgg.  (La Chiesa e il riso).

Ma chiaramente, i testi più importanti sono la Regola del Maestro e la regola di san Benedetto. L'importanza della Regola del Maestro non deriva solo dalla sua influenza sulla regola di san Benedetto, ma anche dal modo in cui la condanna del riso vi si inserisce in una vera e propria etica antropologica cristiana. La domanda dei discepoli che porta il Maestro a proibire il riso riguarda la grande la grande pratica spirituale del monachesimo, l'osservanza del silenzio o taciturnitas: "De taciturnitate qualis et quanta debeat esse?". Il Maestro risponde ricollocando la disciplina del silenzio in una antropologia cristiana che parte dalla considerazione del corpo.